Vi faccio una confidenza: da anni mi sento un po' in minoranza (se non proprio un pesce fuor d'acqua) per il mio modo di intendere la "sacra" professione del giornalismo: una cosa tutto sommato ancora seria (ma attenzione... non seriosa) che può avere profonde responsabilità sociali e in cui il giornalista deve avere un ruolo di tramite e non di "protagonista", come invece capita oggi.
L'apice dell'isolamento professionale, però, lo vivo da quando mi cimento nella formula dell'approfondimento giornalistico attraverso la dinamica del talk-show, format certo non inedito ma che tuttavia ho cercato di declinare in modo originale: non, quindi, come semplice luogo di confronto tra idee diverse se non addirittura contrastanti ma come vero e proprio spazio in cui aiutare gli ascoltatori a farsi un'idea sul merito del problema e non soltanto sulle opinioni di tizio e di caio. Può sembrare novità di poco conto o questione di lana caprina ma, credetemi, non lo è. E non lo era affatto nel febbraio 2010, quando iniziai l'esperienza di telePAVIA. Fate mente locale: all'epoca la formula imperante nei dibattiti televisivi era sostanzialmente quella del "pollaio" in cui, partendo da un tema o da un problema emergente, si mettevano a confronto quattro o più personaggi, non necessariamente competenti o titolati a parlare in pubblico della questione all'ordine del giorno, che però davanti alle telecamere si azzuffavano spesso per partito preso. La folla applaudiva, il conduttore sogghignava, gli ascolti salivano, gli investitori pagavano la pubblicità e le due ore del programma finivano sempre così: con i lottatori esausti e sanguinanti a terra, la folla in studio (e a casa) divisa a favore dell'uno o dell'altro, e il problema ancorà lì, irrisolto ma spesso neppure sviscerato.
La filosofia di "Targato PV" per i primi tre anni e, o
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