Dedicato a chi mi dice "Sei bravo, farai carriera!"

Vedete la foto qui a lato? Sono io da bambino, all'età di un anno o poco più: sono a casa della mia nonna paterna, dove ho trascorso buona parte dell'infanzia avendo due genitori che all'epoca lavoravano tutto il giorno. Sono seduto sul pavimento del salotto e ho davanti a me una radio: i miei raccontano che stavo ore ed ore ad ascoltarla, affascinato dal suono delle parole e della musica che venivano trasmesse dalle emittenti radiofoniche. Ma quella radio aveva anche un microfono a filo che, se collegato, amplificava la voce di chi ci lo usava.

I miei genitori ancora oggi raccontano che quando per puro caso scoprii in quell'apparecchio la funzione di amplificatore, la vita mia - e di chi all'epoca mi ospitava in quella casa - cambiò radicalmente perché iniziai a trascorrere ore intere nel pronunciare lunghi e incomprensibili monologhi solo per il piacere di sentire la mia voce echeggiare nella stanza.
Forse è troppo poco per azzardare l'ipotesi che il mio destino professionale fosse già all'epoca segnato ma questo episodio serve comunque a testimoniare come la mia passione per il mezzo radiofonico sia davvero di lunga data. Tutto questo però mi offre lo spunto per una breve riflessione che, come recita il titolo di questo post, voglio dedicare a quanti da sempre mi rivolgono il più classico e (spero!) sincero dei complimenti: "Sei bravo, vedrai che farai carriera!". Ecco, per favore: non ditemelo più. E non solo perché ho sempre avuto problemi a "gestire" gli elogi e le attestazioni di stima, di fronte a cui mi trovo sempre in grande imbarazzo e difficoltà. No, l'appello nasce da motivi che fondano le radici proprio nella foto che trovate qui sopra. Cosa ci vedete? Quella è l'immagine di un bambino felice, divertito e soddisfatto di quello che sta facendo con grande semplicità e solo per il gusto di farlo.
Ecco, fatte le dovute differenze... oggi non sono molto diverso da allora! Certo, adesso parlare alla radio o in televisione è il mio lavoro ma tutto il resto (la passione per i due media, l'amore per la professione giornalistica seppure declinata in modo originale e a volte anche un po' anticonvenzionale come sono solito fare, l'emozione quotidiana di provare a raccontare qualcosa a chi ha la bontà di ascoltarmi) mi regala la stessa spensierata e ingenua felicità che 40 anni fa provavo parlando dentro il microfono di quella vecchia radio.
Qualcuno potrebbe trarre da questa confessione materiale per una seduta psicanalitica, e forse avrebbe tutte le ragione di farlo. Ma non mi vergogno a dire che ancora oggi - pur affrontando quotidianamente lo stress, le tensioni, i sacrifici e la fatica psicofisica che sono richiesti per svolgere questo lavoro in modo serio e professionale -, mi diverto ancora come un bambino e questa, in fondo, rappresenta per me la più grande soddisfazione. Dal 1986, anno in cui ho iniziato a scrivere i primi articoli sui giornali locali e a fare le prime esperienze nella tv della mia città, ho sempre maturato tutte le scelte professionali guardando prima alle emozioni che mi trasmettevano e solo in un secondo tempo all'aspetto economico. Magari erano scelte strategicamente e opportunisticamente sbagliate... ma ciò nonostante, passo dopo passo e talvolta anche mio malgrado, ho comunque costruito la mia carriera che a qualcuno potrà apparire modesta ma di cui vasdo orgoglioso perché l'ho costruita in modo onesto, senza mai dover accettare compromessi o cercare raccomandazioni.
E, attenzione, questo approccio così "spontaneo" al lavoro l'ho avuto negli anni della gavetta ma anche in tempi più recenti quando - nel 2010 - mi sono licenziato dalla redazione di Radio Monte Carlo per tentare la sfida di fondare e poi gestire una tv locale insieme ad un coraggioso gruppo di professionisti miei amici: non l'ho fatto per i soldi o per inseguire la fama (vi svelo un retroscena: solo pochi mesi prima di laciare la radio avevo rifiutato la proposta di un direttore che mi aveva chiesto di entrare a far parte della redazione di un tg nazionale) ma per il gusto di mettermi alla prova, di provare a realizzare un sogno cimentandomi in un'impresa di grande responsabilità, certo, ma anche di impagabili emozioni seppur rischiosa sul piano economico.
E allora, perché l'ho fatto? E' stata follia? Un pizzico di megalomania? Non lo so ma credo proprio che a spingermi verso l'esperienza di telePAVIA sia stato ancora una volta quel fanciullino che 40 anni fa si divertiva come un matto a giocare con la radio a casa della nonna e che evidentemente alberga ancora in me. E sapete che vi dico? Finché posso vorrei continuare a scegliere di vivere come quel fanciullino e quindi lavorare divertendomi e sentendomi libero di farlo. Ed ecco, in fondo, perché credo che augurarmi "di fare ulteriormente carriera" sia un complimento generoso ma destinato, forse, a non avverarsi mai.

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